venerdì 30 ottobre 2009

Bisogni primari

Ho fisicamente bisogno di dormire bene.
Quel sonno sereno, pacifico e disteso. Il sonno del giusto.
Non quello che ho ora, breve, smozzicato, dal quale vengo strappata da una sveglia impietosa, per poi riprenderlo appallottolata sul sedile dell’autobus, il giaccone come una copertina, la musica nelle orecchie a conciliare quello che non potrà che essere un dormiveglia cullato dal movimento del mezzo che mi porta nella mia città a metà.
Ho fisicamente bisogno di lavorare in sicurezza.
Di farlo senza quella paura sottile ed insidiosa che ti fa pensare che il luogo dove sei non sia poi privo di rischi e che ti fa stare in allerta come un gatto, stare seduta sulla punta della sedia e spalancare gli occhi e mancare un battito al minimo rumore o movimento.
Ho fisicamente bisogno di mangiare in tranquillità.
Non un panino ingurgitato in fretta, dopo una fila interminabile al centro commerciale per poterlo comprare, spesso da sola, seduta mollemente su una sedia del bar.
Ho fisicamente bisogno di una vita sociale.
Di incontrare gli amici, di andare al cinema, al teatro, in piscina, a scuola di ballo, a prendere un aperitivo o un caffè.
Anche di parlare di cose frivole, onestamente.
Ho fisicamente bisogno di abbracciarlo.
Di stringermi a lui, di vederlo sorridermi, di respirare sul suo petto, di sentirmi protetta e coccolata, di sapere che posso contare sul suo aiuto e sulla sua presenza, di sapere che non sono sola, ma siamo in due ad intrecciare le nostre esistenze e le nostre mani mentre camminiamo insieme.
Ho fisicamente, disperatamente, ostinatamente, cocciutamente, improrogabilmente, innegabilmente bisogno di essere felice.

venerdì 23 ottobre 2009

In punta di naso

Dopo cinque mesi di sede provvisoria, in una delle poche scuole che hanno resistito all’”onda anomala” del 6 aprile, avendo l’ente per cui lavoro (a tempo determinato, sia chiaro al mondo) tutte e sottolineo tutte, le sedi completamente inagibili, poiché, per la quasi totalità, palazzi storici in pieno centro, ci siamo trasferiti in un altro edificio.

Trattasi di una palazzina a due piani, trovata in extremis, dopo il vaglio di varie, discutibili alternative.
Proprio per questo motivo, ci sono ancora i lavori in corso, per cui, dopo il “viaggio della speranza” per arrivarci, oltre ad essere privi di riscaldamento e quindi lavoriamo bardati, con piumino, cappelli e sciarpe, come gli eschimesi, siamo allietati da un “Concerto per trapani e martelli, studio n°1” veramente gradevole.

C’è, poi, per gli amanti del brivido e del mistero, un arcano segreto che avvolge la palazzina (il cui colore, oltretutto, è di per sé inquietante)…. Non è la sua costruzione su un antico cimitero indiano, né l’aleggiare al suo interno o nei dintorni di sinistre e minacciose presenze, quanto, molto più prosaicamente, quale sia stata la sua classificazione di agibilità (le famose letterine A, B, C, D, E..) prima dei lavori di adeguamento sismico e se, dopo questi, possiamo veramente stare tranquilli
Nessuno sa, nessuno dice, nessuno si sbilancia.

Però stamattina, quando sono entrata, ho trovato gli ingegneri ed i geometri tutti intorno ad un pilastro portante, mentre uno di loro, arrampicato su una scaletta, dopo aver tolto uno dei pannelli di cartongesso del controsoffitto, controllava la situazione del pilastro medesimo con occhio critico.
Non si può mai stare tranquilli.

Risultato: per scrivere, sto pigiando i tasti con la punta del naso, perché le dita, più agili, veloci ed adatte allo scopo, sono cadute insieme alle mani e, dunque, alle braccia a cui erano attaccate.

martedì 20 ottobre 2009

Nuove professioni

“Muro del pianto forzato”, “consolatore degli pseudo-afflitti”, “spalla a cui appoggiarsi anche quando tutto va bene, ma dobbiamo ugualmente dire che va male perché sennò pare brutto”.
Queste sono tutte nuove professioni (tanto, da più parti, viene proclamato a gran voce che, di questi tempi, il lavoro ce lo dobbiamo inventare) che potrei inserire nel curriculum vitae, anche e soprattutto avendo maturato una discreta e pluriennale esperienza.
Sarà perché non amo parlare dei miei guai e quindi sono sempre l’allegra buontempona, sarà perché ho la faccia buona (e che il fatto mi procuri disagi l’ha intuito il mio stupendo parrucchiere, che, da tre mesi, sforbicia i miei capelli in tagli battaglieri, dando al mio viso quel tocco aggressivo che, a suo dire, non guasta, ma che, purtroppo, all’atto pratico, ancora non da il risultato sperato, cioè non consentire a chicchessia di lacrimarmi addosso, raccontandomi la sua tristissima, sfortunata esistenza), sarà perché dico pochissimi no, ma da sempre, chiunque, parenti, amici, conoscenti e, da non credere, a volte anche sconosciuti, si sente autorizzato a lamentarsi con me di tutto, dal lavoro, al tempo, dal governo (di ladri, buffoni, malandrini, truffatori… ma chi cazzo li ha votati???) ai trasporti, dalla sua vita privata, a quella privata (ma di cui sono a conoscenza) degli altri.
Per carità, va bene, sono a disposizione.
Però, francamente, c’è un limite a tutto.
In particolare dal 6 aprile.
Cazzo.
Un mio amico, che ha trovato lavoro sulla costa, per ora in prova, con buone probabilità di assunzione a tempo indeterminato (cioè, praticamente, è un miracolato) e che, a motivo di ciò, mette piede in città una tantum, per venire a vedere la situazione e recuperare qualcosa a casa, invece di baciare tutte le statue di Madonne e Cristi nelle quali si imbatte (ma fossi in lui, andrei a cercarle di persona in chiese, basiliche e santuari) e, calendario alla mano, ringraziare tutti i santi ivi menzionati, dal primo gennaio al 31 dicembre, attacca delle geremiadi infinite: che sta stressato, che si stanca, che il lavoro è bello ed i colleghi fantastici, ma lasciare tutto e ricominciare da capo è difficile, che non sa se se la sente, che comunque l’appartamento del Progetto C.A.S.E. (del quale ancora non ho avuto occasione di parlare) che potrebbero assegnare al suo nucleo familiare, probabilmente, ha una sola stanza e quindi lui, che dovrà affittare un monolocale nel pescarese dove, quasi sicuramente, dovrà restare, dovrà dormire su un divano-letto in soggiorno quando verrà a L’Aquila a trovare gli amici e i genitori, che sì, insomma, va bene il lavoro, meglio pagato del precedente, vanno bene i colleghi, tutti giovani, simpatici e deliziosamente disponibili, tuttavia la sua è pur sempre una grama vita.
Come la mia. Perché, nella sua visione, siamo accomunati dallo stesso iellato destino.
Se io gli obbietto che lui, insieme ad alcune categorie, quali gli affittuari aquilani con appartamenti agibili, le quattro pizzerie e gli altrettanti bar rimasti in piedi, gli imprenditori edili, è uno dei pochi ad aver migliorato la sua situazione economico-lavorativa, dopo il sisma, mi sento rispondere:
“E ci mancherebbe, dopo quello che MI è successo!”
Cosa gli sarà mai successo?
Su per giù quello che, su una popolazione di 80.000 abitanti (considerando i 49 comuni del “cratere”) è successo a circa 35.000: ha perso casa e lavoro.
L’ultimo, ci tengo a precisare, iniziato da poco meno di un mese prima del sisma, con contratto co.co.pro. di sei mesi.
Non per essere petulante, ma mi pare che il nuovo lavoro sia, e neanche di poco, migliore. Tra l’altro è a dieci minuti di macchina dal residence dove è sfollato.
Ora, come dicevo, io sono disponibile all’ascolto, al consiglio, alla consolazione.
Però ho fiducia, o avevo, che è più corretto, nella sensibilità delle persone che vengono a gemere e sospirare sulle mie spalle.
Perché dire a ME, che trascino fuori dal letto le mie già stanche membra alle cinque del mattino, faccio 20 km con la macchina, prendo un autobus che ci mette due ore ad arrivare in città e poi un altro, che ci mette un’ora per arrivare dove ci hanno scaraventato (più o meno a casa di Satana) e poi, dopo cinque ore in ufficio, fare il percorso inverso per tornare al residence dove sono sfollata, che LUI E’ STANCO, dire a ME, che sto lavorando in un ente pubblico part-time a tempo determinato dopo due concorsi (non colloqui, CONCORSI) con tanto di scritto e orale e che so con certezza che, alla scadenza, non verrà rinnovato, che LUI E’ PRECARIO, dire a ME, che non sono riuscita a prendere una nomina del provveditore per una supplenza annuale, pur andando, trepidante e speranzosa, a ben tre convocazioni, che LUI E’ STRESSATO, dire a ME che sicuramente dormirò per anni su un divano-letto, che, forse, LUI CI DORMIRA’ QUALCHE VOLTA, mi sembra, detto francamente, una mancanza di tatto bella e buona.
E lui non è neanche l'unico.

mercoledì 14 ottobre 2009

Un euro e cinquanta

Le mie giornate hanno, in questo periodo, un unico e fondamentale scopo ultimo.
Quello di trovare esattamente € 1,50 da mettere da parte per il giorno dopo. Né un centesimo di più, né uno di meno. Le combinazioni possono essere disparate:
tre pezzi da 50 centesimi,
due pezzi da 50 centesimi, più cinque da 10 centesimi,
due pezzi da 50 centesimi più due da 20 e uno da 10,
due pezzi da 50 centesimi più uno da 20 e tre da 10,
svariati pezzi da 20 e 10 mescolati in modo da raggiungere la cifra,
1 euro più due monete da 20 centesimi e una da 10,
1 euro più cinque monete da 10 centesimi,
1 euro più tre monete da 10 centesimi ed una da 20,
e poi lei, la regina di tutte le possibili combinazioni:
1 euro e una moneta da 50 centesimi.
E’ come avere in mano un sette e mezzo legittimo, secco, con due sole carte precise precise.
In questa affannosa, spasmodica, ma, a volte, fruttuosa ricerca, mi sono resa conto che non è tanto difficile reperire l’euro, quanto piuttosto i 50 centesimi, che si sono rivelati essere moneta assai meno diffusa di quanto pensassi. L’infame maledetta.

Da questa scoperta se ne deduce che le prime tre combinazioni sono molto rognose da ottenere e, tutto sommato, anche la combinazione madre a due monete.

Fatto che mi adombra non poco.

Va detto che io non cerco € 1,50 in quanto frenetica ed appassionata numismatica, ma perché mi servono per lo stramaledettissimo, nonché intimamente bastardo, parcometro del parcheggio della stazione, dove, praticamente all’alba, lascio la macchina per prendere l’autobus, direzione L’Aquila, che NON DA RESTO, in combutta con lo stronzo distributore di bevande calde e fredde che abbiamo in ufficio.

Indi, poiché io amo dormire e poltrire sotto le coperte ed in conseguenza di ciò mi alzo all’ultimo momento (ma pur sempre alle 5.30 del mattino), arrivando alla stazione quando l’autobus delle sei e mezzo è praticamente in moto, ho bisogno dell’euro e cinquanta in due monete come l’aria, altrimenti ci metto un’intera esistenza ad infilare le molteplici e svariate monetine delle altre combinazioni nella fessura del bastardissimo, attardandomi vieppiù ad attendere la stampa dell’avvenuto pagamento.

Lo so che potrei svegliarmi prima, c’ho anche provato, senza successo, perché già le cinque e mezzo è un orario che mi comporta uno sforzo titanico, ma se quella fetentissima colonnina di acciaio DESSE IL RESTO, come fanno altre, dimostrando che è cosa possibile, io dovrei inserire soltanto UNA MONETA DA DUE EURO, senza ulteriore perdita di tempo perché il resto arriverebbe insieme alla ricevuta, facendomi risparmiare preziosissimi secondi…

… che invece perdo, ricevendo in ambio, affanno e tachicardia per le corse che mi tocca fare per salire al volo sul primo scalino dell’autobus in partenza…

domenica 4 ottobre 2009

E la mia casa...

E la mia casa, dov’è?

Sì lo so che è lì, a cavallo di una scarpata, ancora aggrappata alla terra, in un punto nevralgico di quella che è stata definita “zona rossa”, inagibile, inabitabile, quasi inaccessibile, barcollante, pencolante, tentennante, con gli interni esposti agli sguardi, con le scale sbreccate, ricoperte di polvere, calcinacci, vetri, con le porte sfondate, fuori dai cardini, piegate su se stesse, eppure fiera, perché, a dispetto di quel sisma maligno, che, nella stessa via, a pochi metri, ha raso al suolo tre palazzine, spazzando via 14 vite, ha resistito a quella forza sfiancante dal basso, restando, sì, gravemente ferita, ma in piedi, per dare tempo e modo, a tutti i suoi abitanti, di cercare la salvezza in strada.

La mia casa quasi abbandonata, che, quando posso, vado a trovare, scortata dai Vigili del Fuoco, per recuperare qualche oggetto o anche solo per vedere come sta, come si fa con un amico molto malato, al quale vuoi bene, ma che fai fatica ad andare a visitare, perché ti ferisce il cuore vedere come è ridotto e vuoi ricordarlo nel pieno del suo splendore.

Quella casa che, sbattuta, sollevata, torta, per 22 interminabili secondi, ci ha protetto e tenuto in vita, si è fatta attraversate a grandi passi da noi inquilini straniati, spaventati, scarmigliati e, da allora, custodisce ciò che è nostro e che ancora non riusciamo a recuperare.

Quella casa nido e rifugio, che nel pericolo non ci ha tradito.

Casa di cui ancora non sappiamo la sorte di recupero o abbattimento.

Quella è la mia casa. Eppure, traditrice che sono, dopo tutti questi mesi, a volte, mi sembra di non sentirla più mia.

E non so se è una forma più o meno conscia di difesa.