venerdì 30 aprile 2010

Mah...

Questo periodo è un casino.
Questo periodo faccio casini.
Questo periodo mi incazzo facile.
Questo periodo sogno anche da sveglia.
Questo periodo non sembra avere fine.

Sembra eterno, infatti. E mi porta a chiudermi, a non dire, a non parlare.
La voglia di scappare si fa sempre più pressante. Non riesco neanche a spiegare. Non sto bene. Fisicamente, intendo. Ho una tosse che mi chiude la gola, mi prende lo stomaco, mi stringe i polmoni.
Il medico ha detto che non c’è niente.
Mah.
Dice che forse è un fatto nervoso.
Mi sa.
Come se qui mi sentissi soffocare.
Non è che questa diagnosi sia poi così sbagliata.
Ed io non sono una roccia.
Macchè. Sono un gesso e come gesso mi sfaldo. Piano, però. Ma credo che arriverò allo sbriciolamento totale.
Sto già sulla buona strada.
Dovrei prendermi a schiaffi, lo so.
E non tengo la voglia e la forza di fare neanche questo.

Il mio sogno ricorrente è quello di uscire di C.A.S.A., entrare in macchina, prendere l’autostrada e farmi portare dall’istinto, in un posto qualunque.
Oddio, due o tre destinazioni in mente ce l’ho, per la verità.
Lo dico perché credo che L’Aquila non abbia bisogno di gente come me.
Gente stufa di sentirsi dire, da aquilani che, da anni vivono fuori, quanto gli manca la loro città, quanto vorrebbero tornare, quanto vorrebbero ricostruire, quanto sono tristi.
Gente che vorrebbe essere da tutt’altra parte.

Ecco, sì, di gente come me, la città non sa che farsene.
In questo periodo, io non sto vivendo la realtà. O meglio, la vedo, la tocco, la annuso e faccio finta di niente.
Perché, nella mia testa, c’è un altro mondo ed un’altra vita.
O Gesù, ma ci volesse lo psichiatra?

Eh, sì. E deve essere uno dei più bravi.
I miei nervi hanno ceduto da un pezzo.
Se cede la testa, è la fine.

martedì 27 aprile 2010

Scusa, Matteo

C’è stato un prima. Ci sarà un dopo.
L’adesso è un dondolo appeso ad un pentagramma.
E’ l’i-pod acceso, con le cuffie alle orecchie.
E’ la tua immagine dietro le palpebre chiuse.
E’ il testo a cui la tua voce regala un senso.
E’ il silenzio di intensa attesa tra una canzone e la successiva.
C’è stato un prima. Ci sarà un dopo.
L’adesso è una bolla di note ed accordi in cui mi chiudo
e resto sola con te, che riesci a consolarmi,
in quell’angolo di mondo di cui la tristezza non conosce indirizzo,
dove posso sorridere, senza preoccuparmi
di cosa sarà il nostro domani,
dove nulla è cambiato, nulla ha sconvolto
la mia piccola vita.
C’è stato un prima. Ci sarà un dopo?
Ci sarà?
L’adesso è la tua anima bella che mi accompagna
in giorni in cui spesso perdo la strada,
in mattine nelle quali è difficile anche pensare,
in pomeriggi di passeggiate in non-luoghi
in serate di aspre discussioni tra concittadini,
in notti di sogni rifugio, lontani lontani.
L’adesso è questa piccola felicità
che arriva all’improvviso, quando so
di qualcosa di bello che ti riguarda.
C’è stato un prima. Ci sarà un dopo?
Non so.
L’adesso è tutto questo.
Scusa, Matteo, se ogni tanto ti rapisco dal mondo.
E’ soltanto una questione di ossigeno per vivere.

lunedì 26 aprile 2010

Dei recuperi e d'altre sciocchezze

Oggi sono salita a casa.
Sì sì, casa. Non C.A.S.A.
Potrebbe sembrare cosa normale. Ma qui nulla più lo è.
Pertanto, per salire a casa mia, devo recarmi presso la postazione dei vigili del fuoco che presiede la mia zona, e prenotare l’intervento di recupero.
Recupero di oggetti ed altri beni. Che sono ancora lì.
Perché io, a casa mia, posso entrare solo con la squadra dei vigili del fuoco. Da sola no.
E’ troppo pericoloso. E pericolante.

Bon.
Vado in postazione, mi prenoto, lascio nome, cognome, indirizzo, carta d’identità e svariati altri miei dati personali, compreso il numero di cellulare, ed attendo.
Attendo perché, giustamente, non sono l’unica che deve fare questa operazione, mi accendo una sigaretta (prof Perboni, sto fumando molto di meno, ho quasi smesso, ma, credimi, ci sono momenti in cui una sigaretta ci sta tutta…..), accarezzo il cagnolone mascotte dei vigili, chiacchiero con gli altri questuanti in fila, mi rifaccio anche un po’ gli occhi con un vigile fustacchione.

Tocca a me?
Si va?
Si va.

Per le scale piano, mi raccomando, poi metta il caschetto. Ecco, questo blu.
Va bene. La porta la apriamo noi che si è abbassato il solaio e va un po’ forzata.
Ecco qui.
Cosa prendiamo?

Eh, cosa prendiamo?
Certo, dopo la biliosa riunione nella quale sono venuta a sapere che qui i pilastri si reggono per Grazia Divina e le scale per volontà dei Santi, mi riesce un po’difficile conservare un minimo di lucidità e coerenza organizzativa…

Ok, ci sono.
Camera in fondo a destra. Devo prendere tutto quello che serve a mia madre.
Bene, sì, allora…..
Ho una sensazione strana…. Come definirla?
Di pendenza? Di tensione verso il basso? Di peso gravitazionale?
Non so.
So solo che l’ho provata quando sono salita sulla torre di Pisa.

“Mi scusi, signor vigile…. Una curiosità…. Lei è per caso, che so, ingegnere, architetto, geometra?”
“No, sono perito elettronico.”
“Fa lo stesso. Ma lei non ha la vaga sensazione che la stanza penda un po’ da quel lato?”
“No. Ne ho la certezza”
“Ah, ecco.”
“Comunque, prenda quello che deve prendere, con tutta calma, non si preoccupi”

Sì, come no.
Sono passata nelle varie stanze con la velocità di Usain Bolt, prendendo quello che mi capitava sotto mano.
In effetti, la gatta frettolosa fece i figli ciechi.

Nel borsone, in cui avevo buttato tutto alla rinfusa, ho ritrovato: l’Annunciazione in legno dipinto che stava sul comodino dei miei, la parte superiore del frullatore, tre cd spaccati, un’agenda del 2008, la mia tesi di laurea (bellissima, modestia a parte), una confezione scaduta di fette biscottate, la coperta di lana abruzzese, un coccodrillo di peluche, quattro riviste di diritto del lavoro, il costume olimpionico per la piscina, una pianta finta….. un gatto, un topo, un elefante, non manca più nessuno, solo non si vedono i due liocorni!!!

Qualcosa mi dice che ci devo tornare….

venerdì 23 aprile 2010

La riunione

"Ricapitolando: il terreno su cui l’edificio è costruito è abbastanza buono. E’ stato classificato ti tipo B. Cioè, per dirla con parole povere, regge bene il sisma. Carotaggio a 30 metri, un po’ di argilla, un po’ di limi e poi terreno roccioso e solido.
Ci si può ricostruire.”
Oh, che bello.
Evviva evviva.

“L’edifico in sé, invece, fa cagare. Ha i pilastri, tutti, nessuno escluso, segati, i ferri sono sganciati, i nodi (mi pare di aver capito che sono gli incroci tra i pilastri ed i solai) non hanno solidità, le scale si stanno staccando dai pianerottoli, il calcestruzzo ha buchi e si sfalda.
Che si fa?
Noi tecnici lo si vorrebbe demolire e ricostruire, perché il costo delle riparazioni e degli adeguamenti sismici potrebbe superare quello della demolizione e ricostruzione.”
Chi lo decide?
“Eh, lo Stato. Si presentano i costi dell’una e dell’altra soluzione e poi viene scelta quella economicamente più vantaggiosa. Per lo Stato.
Però, nel caso di questo palazzo, sarà facile farli propendere per la demolizione.
Facile, non certo.
Ma ci si può provare.”

Eh sì. Proviamoci. Perché, sai, non è lo Stato che poi ci viene a dormire, nel condominio rattoppato, sito nella strada che ha il triste primato del maggior numero di morti nei crolli. Dico io.

“Va bene, Ci si prova. Un altro consiglio. Qualora venisse demolito, sarebbe il caso di ricostruirlo con una forma leggermente diversa, fermi restando i metri quadri di ciascun appartamento e gli altri spazi, perché, effettivamente, questa forma, piuttosto particolare, non è la migliore nel caso di un altro sisma di pari o maggiore intensità ( scongiuri di diversa e pittoresca foggia da parte dell’assemblea degli inquilini).
E’ tutto chiaro?
Come vogliamo procedere?”

Signora sconclusionata: “Come ho già fatto presente alla riunione di agosto, io avevo pagato il condominio per tutto l’anno 2009. Vorrei indietro la parte della somma che va da aprile a dicembre. Grazie. Sono venuta apposta per questo.”

Maestra in pensione: “Lo dico subito, non si può cambiare forma al palazzo, perché io non intendo rinunciare neanche ad un centimetro quadrato del mio giardinetto”.

Avvocato in stato semi-vegetativo, che torna vigile solo per rompere i coglioni: “Io voglio sapere esattamente quando potrò rientrare nel mio appartamento, perché altrimenti vado a vivere nella casa che ho in centro storico e che sistemeranno prima, visto che è vincolata e se ne occupa la soprintendenza ai Beni Artistici (seeeee… lo credi tu che fanno prima…)”.

Proprietario di solo garage: “Se poi si cambia struttura del palazzo, sarebbe opportuno vedere di allargare i box dei posti auto che sono francamente augusti”.

La riunione è durata due ore e tre quarti.
I tecnici erano allibiti.

Ora, quando dico che sono preda del più cupo sconforto, mi capite?

mercoledì 21 aprile 2010

C'é chi dice no

La commissione Statuto e Regolamenti del Comune di L’Aquila ha bocciato una proposta presentata da alcuni consiglieri dell’opposizione.
Voti contrari: 14.
Voti favorevoli: 2
Ovviamente i 2 sono anche coloro che hanno presentato la proposta.
All’inizio erano in 4, poi si sono dimezzati.
Quale era la proposta?
Dare la cittadinanza onoraria a Guido Bertolaso.

I motivi del diniego?
Il fatto che Bertolaso sia coinvolto in varie inchieste giudiziarie. Ed anche il fatto che, in deroga all’emergenza, abbia operato alcune scelte, nei mesi successivi al terremoto, senza minimamente coinvolgere la città.
Non essendo ingrata, rigida ed ottusa, la maggioranza ha proposto di dare la cittadinanza onoraria, non alla singola persona di Bertolaso, ma alla Protezione Civile che, e nessuno la ha mai negato, ha fatto tantissimo per le popolazioni colpite dal sisma.

I due consiglieri hanno risposto che no, la cittadinanza va data a Guido, a lui ed a lui solo. Ed in virtù di questa coriacea convinzione, porteranno avanti la loro battaglia.

Come la penso io?
Sinceramente?
Ma proprio in tutta onestà?

Penso che questi due signori sono tanto ma tanto fortunati e privi di problemi se, in mezzo a tutto questo caos, hanno come priorità la cittadinanza onoraria a Bertolaso.
Fossi in loro, avrei ben altro per la testa.
Come, in effetti, ho.

martedì 20 aprile 2010

Pezzo più, pezzo meno...

Questa mattina mi sono dimenticata di girare per l’ufficio.
Sono andata dritta con la macchina. Ma dritta e lunga.
Mi sono accorta di non aver imboccato la traversa circa 600 metri dopo.
Questo per far capire come sto.
Completamente fusa, andata, ormai da buttar via.
Mi pare superfluo aggiungere, a sottolineare la mia totale incapacità a sottostare alle più elementari regole della dipendenza (a tempo determinato, eh! Cosa credevate?) dalla pubblica amministrazione, che non avevo il badge (ma dove cavolo lo metto, tutte le volte?????).
Ma tant’è.

L’appello delle mie facoltà mentali l’ho già fatto in altro luogo, ma se mi devo ripetere, mi ripeto.
Dunque,
neuroni in vacanza alle Canarie;
memoria a breve termine a Francavilla con il parrucchiere;
senno a Sassuolo con il giovin tenore che m’ha rapito anche l’anima;
aggiungo un pezzo di cuore in Brianza;
un altro (e neanche tanto piccolo) a Milano.
Ecco come sto.
E tutto si spiega.
Se poi si aggiunge, a ciò, che ho ricevuto un sms, che mi aspettavo, ma che temevo più del suono delle trombe del Giudizio Universale, il quadro è completo.

Il messaggio recitava così:
“In data 22 aprile è indetta la riunione straordinaria del condominio XY, con il seguente ordine del giorno: risultati prove geologiche e strutturali con relazione su eventuali indirizzi da intraprendere”.
In parole limpide e cristalline, i tecnici che abbiamo scelto, ci devono dire, secondo loro e sulla base di verifiche e controverifiche, che fine fa il nostro palazzo arroccato sul fianco di uno strapiombo.
Lo stesso palazzo del quale l’ingegnere strutturista del nostro team di esperti, dopo una rapida occhiata esterna, disse: “E’ un miracolo che stia in piedi. Ma quante persone sono morte, in questo edificio?”

Ah che bello, non vedo l’ora che sia il 22!
Però questa volta vado armata, perché se l’Avvocato, più tirchio di Scrooge, si azzarda, anche soltanto per perifrasi e metafore, a dire che stiamo spendendo troppo per le indagini su cemento e terreno, lo percuoto con il gatto a nove code, finche non mi si stacca il braccio dal corpo.
Tanto a pezzi già ci sono.
Pezzo più, pezzo meno….

domenica 18 aprile 2010

Ti ascolto

Ti ascolto, Matteo.
E queste pietre fuori posto riprendono vita.
Questi mattoni infranti si animano.
Questo cemento sgretolato prende vigore.
Questi ferri ritorti tornano nuovi e dritti.
Questi oggetti irrecuperati ritrovano un proprietario.
Ti ascolto.
E 308 anime ti ascoltano con me.
Gli amici troppo solleciti non mi feriscono.
I nemici aridi e sciocchi non mi toccano.
Gli stranieri ottusi tentano di capire il nostro vissuto.
I giornalisti seri raccolgono le nostre vere storie.
Ti ascolto, Matteo,
Ti ascolto spesso.
Quasi sempre.
Perché quando ti ascolto,
Matteo,
io, coniglio, torno aquila.
Aquila, Matteo.
E volo alta, altissima,
Fino lassù, in quel punto indistinto,
lontanissimo, a raggiungere la tua voce
che è già lì,
e mi aspetta.
In quell’altrove che mi salva.

venerdì 16 aprile 2010

Giornali

Mi sento come un vecchio giornale accartocciato. Come quelli che, non so, per esempio, sono stati utilizzati per avvolgere le uova fresche, quelle comprate al mercato. Oppure quelli con i quali si è pulito lo specchio, il vetro di una finestra. O come quelli appallottolati, pronti per essere gettati, ma che, con un ultimo colpo di vento, che somiglia tanto ad un dispetto del destino, vengono scaraventati nell’aria e sballotati qui e là. Che può sembrare un simbolo di grande libertà, e invece è un sintomo di impotenza di fronte alla sorte. Perché libero è chi decide quando e dove andare.

Qui, invece, non mi sento libera di fare niente. Tranne scrivere.
Qui i percorsi sono obbligati, perché dove vorrei andare, nei vicoli della mia città, nei negozi, nei monumenti, in quelle stradine così strette ed accoglienti, è tutto chiuso, transennato, militarizzato, controllato. Pericolante.

Pericolante. Sì. Cadente. Perché qui il terremoto, anche a distanza di un anno, anche se con tenui scosse, continua a fare danni.
Piccoli danni impercettibili e costanti.
Anche dentro di me.
Di noi.

Ma ormai siamo una notizia vecchia.
Non serviamo più.
Con noi hanno avvolto uova, pulito specchi e vetri, ci hanno appallottolato per buttarci nella differenziata.

I giornali nuovi dicono che va tutto bene.
Il terremoto, quello quotidiano, quello vissuto ogni istante, è tutto nostro.

mercoledì 14 aprile 2010

Aprile, sarebbe dolce il dormire...

Fa freddo.
E’ il 14 aprile e fa un freddo che taglia la faccia, attraversa i vestiti e ti entra fin negli organi interni.
O forse sono i ricordi che portano questo gelo.
Sapevo che aprile sarebbe stato un mese infame. E che sarebbe passato in lenta agonia.
Perché è stato il mese più tragico.

L’anno scorso, questi erano i giorni di censimento e riconoscimento: stavamo cercando i terremotati e gli sfollati, stavamo facendo i conti in tasca ad una intera città, stavamo catalogando i morti, i vivi, i feriti ed i sopravvissuti, stavano inventariando perdite umane, storiche, artistiche, affettive, sociali.
Erano giorni di occhi pieni di lacrime e vuoti di espressione, di mani accartocciate intorno ai cellulari, di labbra piegate dalla sofferenza e dal lutto, di cuori trafitti da giovani angeli perduti in 22 secondi.
Giorni di telefonate da amici lontani, che credevi ti avessero dimenticato, ma che, invece, avevano, non si sa come, recuperato il tuo numero ed erano lì a preoccuparsi per te.

Giorni di disorientamento, di straniamento, di totale annientamento delle forze, di angoscia, di polvere e sangue, di continuo insistente pressante esasperante movimento della terra sotto i nostri piedi.
Giorni di fuga, di file alla Croce Rossa ed alla Caritas a Pescara, Francavilla, Montesilvano, per prendere maglie, pantaloni, tute, vestiti.
Giorni che vorrei dimenticare, ma la memoria, serpe insidiosa, me li riporta alla mente, in maniera pressante, straziante, devastante.

Per questo, ad aprile, vorrei dormire, dormire, dormire…………

martedì 13 aprile 2010

Nervosa

Sarà che, dopo tutto questo tempo, la pazienza si è pure esaurita, il livello di stress psico-fisico è ai massimi storici e la stanchezza è ormai padrona del mio essere, ma veramente non ne posso più.
Di chi?
Di chi blatera a vanvera che tutto va bene, di chi, fino al 5 aprile continuava a dire che a L’Aquila non c’era niente ed era una città morta (cosa inesatta, tra l’altro) ed ora gira con maglie, magliette e felpe con su stampigliato “I love AQ”, in tutti i colori e le dimensioni, sbandierando al mondo la sua “aquilanità”, di chi si sveglia la mattina, si sente di colpo giornalista, e scrive, sulla stampa locale, sterili critiche dell’operato altrui (sterili poiché costituite, esclusivamente, della pars destruens, e monche, pertanto, di quella costruens, che tanto sarebbe utile, invece), di chi vive qui con due fette di prosciutto davanti agli occhi, di coloro che non vogliono capire le nostre, o, forse, questo punto dovrei dire mie, ragioni.
Un esempio?
Il progetto C.A.S.E.
Se provo a dire che gli appalti sono stati dati all’amico dell’amico degli amici che ha presentato dei prezzi assurdi (oh, ma scusate, ho usato un termine tecnico, in gergo comune si tratta di “appalti in deroga all’emergenza”), cosa che potrebbe non essere grave, se fossero stati spesi soldi di un privato miliardario per la sua stratosferica villa, ma che lo diventa nel momento in cui si utilizza DENARO PUBBLICO, mi sento rispondere “Ma che volevi, un container? E poi ti sembra questo il modo di ringraziare la Protezione Civile per quello che ha fatto?”.
E’ lì che mi rendo conto che il dialogo è difficilissimo.
Vorrei spiegare, infatti, che tra il container e le C.A.S.E. da 2700 euro al mq, c’è tutta una raggiera di soluzioni intermedie che non sono neanche state prese in considerazione e che avrebbero consentito di risparmiare denaro che poteva essere investito nel recupero di case poco danneggiate, in modo da far rientrare i proprietari che, particolare spesso dimenticato, sono ancora in costa o in alberghi del circondario, a spese dello Stato. Per dire.
Vorrei spiegare, inoltre, che io stimo e ringrazio tutti i giorni mentalmente, i volontari della Protezione Civile, che hanno abbandonato per un periodo di tempo le loro vite e sono venuti, da tutta Italia ad aiutarci, a costruire e gestire i campi, a confortarci, a farci ridere, a portare i primi soccorsi, a scavare per cercare i nostri morti, a piangerli insieme a noi, ma che ritengo, tuttavia, sbagliate alcune scelte dei vertici della stessa (quante saranno? 10 persone? 15?). Non credo ci sia nulla di male in questo.
Per esempio, sono inferocita con il vice di Bertolaso, De Bernardinis, che, in occasione della riunione della “Commissione Grandi Rischi”, convocata, il 31 marzo 2009, perché, da mesi, ormai, qui si ballava quotidianamente, liquidò le preoccupazioni del sindaco (che aveva richiesto lo stato di allerta ed emergenza per la città) con una frase da incorniciare: “Dormite tranquilli nelle vostre case, bevete un bel bicchiere di Montepulciano D’Abruzzo. Tutte queste scosse sono indice del fatto che la terra libera l’energia un po’ alla volta. Non c’è da preoccuparsi”. I terremoti non si possono prevedere, è vero, ma neanche escludere categoricamente.
Chi si è fidato, è morto nel suo letto, in pigiama.
Meno male che qualcuno non si è fidato ed ha dormito in macchina.
Meno male che qualcun altro ha avuto culo e la sua casa ha retto per il tempo di fuga.

Meno male. Ma c’è tanta amarezza.

E poi oggi sono nervosa. Sarà perché anche questa notte la terra si è mossa a 10.8 km di profondità, con magnitudo 2.6 ed io non ho bottiglie di Montepulciano D’Abruzzo da stappare.

venerdì 9 aprile 2010

Con Matteo

Era bellissimo.
Quando le giornate iniziavano ad allungarsi, una tuta, un paio di Nike, l’i-pod in tasca, andavo a piedi, da casa mia, verso il prato verde di fronte alla Basilica di Collemaggio.
Era una vita fa.
Quando, dall’ex convento lì accanto, dove avevano trasferito il Conservatorio, alla luce del tramonto, mentre si correva, si giocava a calcio e a rugby, si portavano a spasso i cani, si leggeva distesi sull’erba, provenivano suoni e canti meravigliosi: gli alunni che provavano, i cantanti che scaldavano la voce o accennavano arie d’opera.
Era così appagante, che il mio i-pod restava nella tasca.
Era come essere al crocevia della bellezza.
Della natura, dell’architettura e della musica.
Era.
Oggi la Basilica ha la sua meravigliosa facciata nascosta da un’impalcatura e la parte del transetto, completamente crollata, ricoperta da una tettoia di plexiglas.
Oggi l’ex convento è vuoto, abbandonato e silenzioso. Il Conservatorio si è trasferito in un MUSP.
Oggi, sul prato, non c’erano che pochi nostalgici del tempo che fu .
Ci sono anche io.
Ancora in tuta, ancora con le Nike, ma, soprattutto, ancora con l’i-pod.
Che non resta in tasca.
Metto le cuffie, accendo, alzo il volume.
Matteo è con me.
Canta.
“Una furtiva lacrima”
“Quanto è bella, quanto è cara”
“Nessun dorma”
“Libiamo ne’ lieti calici”
“La voce del silenzio”
“Who wants to live forever”
“La promessa”
“La donna è mobile”
“Solo per te”
“Guarda sempre più in là”
“Un amore così grande”
…..

Matteo mi fa piangere di gioia, mi riporta ad un “prima” che non tornerà, mi accompagna in giornate infami, mi riempie l’anima, mi fa sorridere, mi emoziona fino a restare senza fiato, mi addolcisce una realtà che non vorrei vedere, ma che devo affrontare, mi rende una persona migliore, mi fa desiderare di respirare più forte, mi fa aggrappare alla vita, mi da speranza, mi regala gioielli di musiche e canzoni, mi spiana le rughe di preoccupazione che, troppo spesso, ultimamente, si formano sul mio viso, mi calma, quando la rabbia, il nervosismo, l’impotenza di fronte alla situazione tendono i miei nervi scossi (mai termine fu più adeguato) e mi fanno chiudere i pugni fino a far diventare bianche le nocche delle dita, mi spolvera via dalla mente i pensieri cattivi e nefasti, mi aiuta a non scivolare nella depressione, mi fa guardare questa città non com’è ora, ma come era o come sarà, mi ricorda che, in questo mondo al contrario, c’è ancora qualcuno che non calpesta e infama gli altri per emergere ed andare avanti, mi ricorda le buone regole dell’educazione, mi diverte con le sue espressioni, il suo sapersi prendere in giro, la sua ironia garbata ed intelligente, mi fa venire voglia di scrivere canzoni per lui, mi fa credere in Dio.


Sì sì, lo so che adesso ho intaccato irrimediabilmente l’immagine di Coniglia cinica, sarcastica, ironica e pungente….

martedì 6 aprile 2010

6 aprile 2010

Non ho pianto.
Vorrei poter dire che non ho più lacrime.
Ma così non è. Perché tante ne ho versate e ne continuo a versare, anche nelle situazioni più impensate
Anche davanti ad un film, o mentre leggo un racconto, o guardo una foto particolarmente bella.
Eppure ieri niente. Nemmeno una.
Mentre la lenta, lunga, silenziosa, accorata, dignitosa, dolorosa, composta e compatta fiaccolata illuminava il nostro centro storico ed il suo attuale, triste volto, io avevo gli occhi e le guance asciutte.
Non so perché.
Forse perché i 308 motivi per piangere erano e sono veramente tanti. Troppi.
O perché, in realtà, i motivi sono molti di più e ci hanno lasciato morendo di crepacuore in questi mesi, di ferite troppo gravi, di tristezza e malinconia. Motivi anziani, nella maggior parte dei casi, che non ce l’hanno fatta a vivere in una realtà così spezzata, assurda, stravolta.
Forse perché mi sono accorta che cerco, mi sforzo di non ricordare quegli istanti, il boato, il tremito che ci ha immobilizzato, il terrore, la fuga, le urla, la polvere, i calcinacci, il buio, la ricerca di parenti ed amici, i cellulari senza campo, le sirene, le ambulanze, la consapevolezza, maturata di ora in ora, in quei due giorni passati in sette, con tre coperte, dentro una macchina, che quello che ci stava capitando era una tragedia, delle cui dimensioni ancora non avevamo idea, ma che, iniziavamo a capire, era grande, più grande di noi.
E invece, per quanto impegno ci metta, non dimentico.
Ed il dolore è tale, da paralizzare le mie lacrime.
Questa notte non ho dormito.
E con me non hanno dormito 25.000 persone.
25.000 anime straziate.
25.000 silenti sopravvissuti
25.000 scippati delle proprie certezze.
25.000 riuniti in Piazza Duomo, che non poteva contenerli.
Non ho pianto perché era troppo il silenzio, quasi a controbilanciare tutto il rumore, nella notte di un anno fa.
Alle 3.32, gli uni vicino agli altri, 25.000 esseri umani accorati tacevano.
Soltanto 308 rintocchi di campane, dalla chiesa squarciata delle Anime Sante, che sono stati, per me, come 308 pugni in pieno stomaco.
E non ho pianto.
Non so perché.

domenica 4 aprile 2010

Alessandro, Alfredo e Matteo

C’era un momento, in quell’altra mia esistenza, l’altra, sì, quella dove i mattoni erano ancora ognuno al proprio posto e la mia città aveva oltre 308 persone in più a viverla e a respirarla, l’altra, non questa che mi sono dovuta inventare per non impazzire, in cui sfioravo la più alta poesia.
Ed era a teatro.
Ma non quando guardavo uno spettacolo.
No.
Accadeva quando, durante le lezioni di dizione e recitazione che frequentavo, ci lasciavano liberi, a contatto con il palco.
Io, allora, mi stendevo schiena a terra e braccia larghe sulle tavole di legno del palcoscenico e guardavo in su, i riflettori accesi. Poi chiudevo gli occhi e, dietro le palpebre, mi restava ancora per un po’ la luce che avevo fissato.
Adoravo quei momenti. Mi catapultavo in un mondo che sceglievo e creavo io, tutto per me.
Mi piaceva la scena vuota, perché poteva ancora essere tutto e niente. Mi estraniava dalla mia realtà, senza ancora crearmene una preconfezionata dal regista e/o dallo scenografo.
Era mia, mia soltanto.
Era fatta di odori e di sensazioni tattili, su quelle tavole lisce e compatte. Sentivo con tutto il corpo, con le braccia, con i palmi delle mani, con la schiena, con le gambe.
Era fatta di immaginazioni e sogni più veri del vero.
Era vita da mangiare.
Era vita che non trovavo più.
Finché non ho scoperto che c’è ancora la possibilità di riavere quelle sensazioni. Anche più forti.
E’ successo a Londra, qualche settimana fa, quando sono entrata dentro il “Globe”. Il teatro di Shakesperare sulla riva del Tamigi, ricostruito com’era in epoca vittoriana, rotondo, con il tetto di paglia, i palchetti in legno, così come le panche al loro interno e l’esterno dipinto di bianco, piccola chiazza di purezza nel caos contemporaneo che gli girava intorno senza sfiorarlo. Un piccolo Mondo a sé, intenso, intatto, preciso ed unico.
Al suo interno, mi si è spalancata l’anima. Ed ha permesso al Bello ed al Sublime di entrare.
E’ stato un istante così intenso, da non riuscire a descriverlo
Talmente lontano dalla paura che ho qui, dai pensieri pesanti, dall’incertezza del futuro, dalla precarietà delle giornate, dai pianti silenziosi per ciò che non è più, dalle macerie che invadono anche il mio cuore, dalle crepe e dai crolli che ho, non solo nella casa, ma anche nella mente, dal vuoto lasciato dagli amici che non hanno fatto in tempo a scappare quella notte, da non voler tornare indietro mai più.
Poi ho capito che lo stesso può accadere con le persone.
Alessandro e Alfredo due attori, due artisti, due persone meravigliose, che in questo lungo anno mi sono state vicino, si sono preoccupate per me, mi hanno consolato, ascoltato, accompagnato, coccolato, telefonato, scritto, abbracciato, fatto ridere, aiutato a non mollare, sono la mia “scena vuota”.
Ma Matteo, che non sa che esisto, che ha cantato, ha sorriso, ha ballato, ha saputo mettersi in gioco ha reso minuti di musica piccoli diamanti preziosi, ha battuto le mani agli altri, ha chiuso gli occhi, si è emozionato della sua stessa voce, ha asciugato lacrime di felicità di fronte alla notizia più bella della sua vita, Matteo è il mio “Globe”.

venerdì 2 aprile 2010

La Passione

Non ho sentito la sveglia. Per cominciare.
Eppure ha un suono stridulo e fastidioso. Sul genere “gessetto e/o unghie sulla lavagna”. L’ho scelto apposta.
Che nervi.
Mi sono svegliata di colpo, agitata, sbattuta, pestata. Dopo una notte da incubo.
Ho sognato il 6 aprile.
Si muoveva tutto intorno a ma, saltava, ballava, si torceva. Nel sogno, però, la mia casa mi tradiva e non restava in piedi. Ed io precipitavo nel vuoto con il letto. E con macerie come coperta.
Credo anche di aver gridato. Ma per fortuna i miei sono due sassi, altrimenti me li sarei giocati con un infarto.
Lo sapevo che, all’avvicinarsi dell’anniversario, avrei avuto di queste reazioni…
Comunque era solo un sogno e mi sono svegliata viva.
Tardi, però.
Infatti mi sono dovuta lavare e vestire, rapida più del trasformista Brachetti.
Non ho trovato la macchina. Per continuare.
Perché questo “quartiere” e le sue C.A.S.E. cambiano volto in continuazione.
Porca di quella infame miseria.
E quindi mi sembra sempre di essere in un posto diverso. Poi mi sono ricordata che l’avevo posizionata nel fondo più fondo del buio parcheggio, al di sotto delle piastre antisismiche che reggono (o si spera che lo facciano in caso di bisogno) gli edifici, dove poi, in effetti, l’ho trovata (l’ho già detto che i miei neuroni sono in vacanza alle Canarie? No? Ok, lo dico adesso. E che la mia memoria a breve termine è scappata con il parrucchiere di Francavilla? No? OK, lo dico adesso. E che quel poco di senno che mi era rimasto ce l’ha in ostaggio il tenore di “Amici” in quel di Sassuolo? No? Ok lo dico adesso.).
Non mi sono ricordata delle voragini sulla strada. Inoltre.
Pertanto penso di aver lasciato alcuni pezzi della mia Citroen lungo tragitto che porta all’ufficio. (l’ho già detto che il mio ufficio è in un palazzo di colore viola? No? Ok, lo dico adesso. E mi sa che porta pure un po’ sfiga.)
Non ho beccato la giusta frequenza sull’autoradio. Seguitando.
Premesso che adoro Radio Deejay ed ogni singolo speaker che ci lavora (con una particolare predilezione per La Pina e Diego ed il loro programma “Pinocchio”), però Platinette che mi spara nell’abitacolo, tutte le mattine, “Calore” di CamionEmma, finendo di destabilizzare il mio già precario sistema nervoso, inizio a non sopportarla più!
Non ho preso il maledettissimo badge. Infine.
Ma dopo che vi ho detto dove sono finiti i vari componenti del mio cervello, e vi ho descritto, in post precedenti, il pessimo rapporto che, fin da subito, ho istaurato con l’odioso ed odiato tesserino magnetico, questo era il minimo che mi poteva capitare.
E sono solo le nove di mattina.
Capisco che è la Settimana di Passione, però c’è un limite a tutto!

giovedì 1 aprile 2010

Colpita ed affondata

Non rivedevo il mio collega da venerdì scorso.
Per l’amor di Dio, non che mi mancasse, però in questi giorni l’aria in ufficio è talmente mesta che anche la sua compagnia avrebbe fatto la differenza.
E ho detto tutto.

Domenica e lunedì, qui, si è votato per le elezioni provinciali. Ed ho toccato con mano il detto “non c’è mai limite al peggio”. Questo tizio, che ha vinto e che, per inciso, è il delfino di un tale che, all’indomani del terremoto, quando ancora cercavamo i cadaveri sotto le macerie, ha esordito con la frase più infelice del mondo: “Ora il capoluogo va spostato a Pescara”, o qualcosa di simile (le parole non saranno quelle esatte, ma il concetto mi sembra limpido e cristallino), ce lo dobbiamo tenere. Eh, il popolo è sovrano!
Il tizio che ha vinto, sempre per dovere di cronaca, non è aquilano. E va bene che, dovendo rappresentare l’intera provincia, non era necessario che lo fosse, ma in un momento come questo, con già il presidente della regione che accarezza e coltiva gli interessi teramani, sarebbe stato meglio che, invece, lo fosse stato. E scusate il periodo infarcito di arzigogoli baroccheggianti.

Oddio, dopo aver visto i risultati delle Regionali, quello che ci è capitato è una goccia marrone in un oceano di pupù, però sono delusa.

Talmente delusa che, lunedì sera, ho deciso di vedere la finale di “Amici”, invece delle trasmissioni di approfondimento politico (che c’era da approfondire? Siamo nelle sabbie mobili, ed approfondire è, quantomeno, rischioso). Ha vinto una certa Emma. Lì, non nel Lazio.
Tale Emma, bellina, pppecccarità, un visetto caruccetto ed un paio di coppe abbondanti e ballonzolanti sul davanti, ma aggraziata come un gorilla, presuntuosa come un leader maximo (per dire, nel suo monologo finale, dopo aver ringraziato anche il cane, il gatto ed il pesce rosso nella boccia in camera sua, ha detto: “Ringrazio tutte quelle persone che hanno creduto in me QUANDO NON ERO NESSUNO”, come se ora fosse QUALCUNO, qualcuno di cui ci scorderemo presto, spero) e sul cui talento vocale ci sarebbe da discutere un attimo, ma pompata e pubblicizzata in modo da pilotare i televoti nella sua direzione. Per motivi misconosciuti, visto che, tra i quattro ragazzi arrivati in finale, era veramente la meno meritevole, non fosse altro che per il suo urticante modo di fare (una sgallettata affacciatasi or ora sulla scena televisiva che risponde ad un critico musicale, che non è proprio il primo cretino lì per caso, che osa dirle, dopo un’esibizione “Non hai cantato proprio benissimo”, un raffinatissimo “Chissene frega!”).

In finale c’era anche un certo Matteo, di cui sentiremo parlare. Non tanto in televisione (per sua fortuna), ma nel mondo della musica, del teatro lirico e dell’opera.
Ora, Matteo è un ragazzo che si è fatto un quadruplo mazzo, è diplomato in canto ed in pianoforte al conservatorio, ha una voce che trascina in un mondo migliore di quello che ci circonda, un talento ed una sensibilità musicale sullo strumento da far impallidire l’intera orchestra che lo accompagnava, un modo elegante di porgere la parola in suono, un amore per la lirica e per il bel canto che fanno appassionare al genere chi lo ascolta.
Ma soprattutto Matteo è un ragazzo educato, cortese e leale.
Matteo rispetta l’avversario, lo applaude, ne riconosce le qualità.
Matteo, senza spocchia, si mette a disposizione degli insegnanti perché sa che da ognuno c’è da apprendere qualcosa.
Matteo non sottolinea i difetti altrui, non prende in giro, non fa sterile pettegolezzo.
Matteo accetta le critiche e le adopera per migliorarsi.
Matteo canta. E sorride.
Matteo è arrivato quarto.

E quando ho visto questo, in concomitanza con i risultati elettorali, ho pensato che non c’è speranza.
O forse sì, ma è un filo flebile al quale mi attacco con disperazione.

Perché Matteo è stato scritturato dal direttore d’orchestra Daniel Oren per recitare il ruolo di Nemorino nell’”Elisir d’amore” di Donizetti al Teatro Verdi di Salerno.
E la notizia, anche se non mi riguarda personalmente, mi rende felice.
Questo ragazzo mi ha colpita ed affondata.