giovedì 21 gennaio 2010

25 volte

Ho dovuto aspettare un paio di giorni, prima che mi passasse la nausea.
Non ho l’influenza e non sono incinta. Sono solo nauseata da quello che leggo sui giornali, su internet, dappertutto. In relazione a parecchi argomenti, ma nel caso specifico, alla “venticinquesima visita del premier nelle zone terremotate”, di due giorni fa.
E basta!
E non se ne può francamente più!
Oltretutto queste trasferte, per vedere come stiamo e per inaugurare strutture che, nella maggior parte dei casi, non ha fatto lui, costano alla collettività una vagonata di euro che potrebbero essere spesi in modo molto più utile.
Nella ricostruzione, per esempio.
In quella vera, però.
Perché, se qualcuno viene a L’Aquila, vede le C.A.S.E., i M.A.P. (che sono come le C.A.S.E., ma un po’ più piccoli, per coppie e single), i M.U.S.P. (che sono come le C.A.S.E., però ci vanno dentro le scuole), che sono un’ottima cosa, niente da dire.
Ma questa è COSTRUZIONE, non RICOSTRUZIONE.
E chi dovesse fare per caso un giro nel il centro storico di L’Aquila e in alcune zone della periferia, nonché nei paesi del “cratere”, capirebbe di cosa parlo.

Credo che mi verrà l’ulcera.
Soprattutto dopo aver visto l’”Osanna a te signor” del sedicente comitato “L’Aquila per Silvio” (non commento) all’indirizzo del premier, il pranzo di quest’ultimo a casa di una delle famiglie di sfollati (scelti a caso, ovviamente….), la piccola folla plaudente, i bambini della scuola primaria, della quale veniva inaugurato il M.U.S.P., occasione e motivo della passerel.. ops visita, costretti a rispondere con cori di “Sììììììììììììì” a domande tipo: “Volete bene al vostro Presidente del consiglio? Siete contenti che sia venuto a trovarvi?” (e indovinate un po’ chi, con sdoppiamento della personalità, poneva tali quesiti?), gli imbianchini che, il giorno prima, si affrettavano a coprire scritte incisive e poco carine nei confronti di Berlusconi sui muri antistanti il M.U.S.P.

Ma quello che mi ha veramente attorcigliato le budella è stato lo scambio di battute tra un aquilano che ha detto: “Presidente, torni spesso a trovarci” ed il premier, che ha risposto: “Non serve, ormai qui è tutto apposto”.

lunedì 18 gennaio 2010

Gioia effimera

Odio i lunedì.
Non riesco a svegliarmi presto, arzilla, pronta ed allegra, gridando: “BUONGIORNO MONDO!”, perché apro gli occhi incazzata, dal momento che non avrei voluto alzarmi dal letto così presto (anche se rispetto all’ora in cui mettevo la sveglia durante il mio “esilio costiero”, questo è quasi un risveglio da “Giovin Signore” di pariniana memoria, visto che guadagno due ore nette di sonno, pur se poco tranquillo, dato che, dal 6 aprile, non è che riesca proprio a dormire su due cuscini, se devo essere sincera).
C’è da dire che, tuttavia, stamattina, il mio notevole malumore mattutino si è stemperato con l’aiuto di un caffè macchiato al vetro, servito, insieme ad un simpatico sorriso, da un barista disponibile e cordiale, si è diradato con la scoperta che è ora possibile parcheggiare serenamente senza circumnavigare più e più volte l’edificio, perché i nostri “dirimpettai”, che erano tanti e nervosi, sono tornati nella sede che avevano prima del sisma e che è stata ristrutturata, lasciando a noi l’ampio parcheggio con vista sui monti innevati, ed è completamente svanito quando mi sono ricordata di timbrare immantinente.
Ah, che gioia!

Peccato che sia durata un attimo. Il tempo di rendermi conto che il Collega, simpatico quanto un colpo di badile sulla schiena e sorridente come Lurch, il maggiordomo della Famiglia Addams, era rientrato dalle ferie.
Proprio lui. Che gela l’ambiente in un attimo. Che risponde con grugniti irritati a qualunque mia domanda (visto che non sono una figa alta e bionda/mora, e che non mi rivolgo a lui miagolando), quando risponde, perché spesso non si degna. Che non parla mai, rendendo la stanza una bolla isolata ed insonorizzata. Che sospira e mugugna da solo ed ogni tanto ci rende partecipi di un suo pensiero, il quale, nella quasi totalità dei casi si compone di “Ah (sospiro) + povero + suo nome proprio + ehhhhhhhh (sospiro prolungato)!”. Che si fa beatamente i suoi cazzi al computer (e qui colgo l’occasione per salutare di nuovo big Renato). Che, se ha un quesito da porti, usa un tono quasi scocciato, perché è costretto a rivolgerti la parola. Che non ama il lavoro che sta facendo e quindi, fondamentalmente, non lo fa (e potrei pure dire chissenefrega, se non fosse che svolgiamo le stesse mansioni e quindi, se lui non le fa…).

Ecco, meno male che ho imparato a godere l’istante, perché la gioia è veramente effimera.

venerdì 15 gennaio 2010

Inclinazioni naturali

Non ci sono proprio portata, io, per il lavoro impiegatizio.
Ormai è fatto acclarato.
Non tanto perché provengo da studi umanistici ed artistici o perché trovo gli uffici, specialmente quelli in cui non c’è contatto con il pubblico, francamente deprimenti, o perché amo stare all’aria aperta, oppure in un teatro (a lavorare, eh, mica ad intrattenermi), o perché, forse, in teoria, sarei un’insegnante e quindi dovrei, e dico dovrei, essere a scuola (ma vista la situazione in cui essa versa, grazie ad una certa Ministra in via di riproduzione, non so se è meglio così, tenuto anche presente che, in virtù delle “riforme” della Ministra di cui sopra, probabilmente non ci metterò mai più piede e dunque non devo piangere sul latte versato e bon.).
Non per questo, no. Ma per il fatto che sono distratta, distrattissima, al limite dell’assenza mentale.
E quindi mi dimentico quello che, per gli impiegati, in particolare nelle Pubbliche Amministrazioni, è ormai divenuto un movimento naturale ed automatico: la timbratura del cartellino.
Anzi, giacché siamo nel 2010, è più esatto parlare di badge.

Eppure la malefica macchinetta è lì, proprio all’ingresso. Sono io che non la guardo.
O meglio, quando entro, me la trovo sotto gli occhi, la vedo, la metto a fuoco, mi ricordo a cosa serve, e striscio il badge.
Quando vado via, però, è alle mie spalle. E quindi.
Sono già enneamila volte che esco, salgo in macchina, metto in moto, prendo la strada di casa, pardon di C.A.S.A., e, a qualche centinaio di metri dall’ufficio, mi ricordo di aver dimenticato di timbrare, pertanto inverto a U, ritorno verso l’ufficio, lascio un attimo l’auto di traverso davanti alla porta, e timbro l’uscita sotto lo sguardo liquido e mesto dell’usciere, che ormai non si sorprende più, con buona pace di Brunetta “Bru Bru”, che, se leggesse queste righe, inorridirebbe e griderebbe al furto dei circa cinque-sette minuti che mi occorrono per fare questa operazione (ma so per certo che non le legge. Lavora lui, mica come quei fannulloni dei pubblici impiegati!)
Ci sono poi le volte in cui, nella fretta, son lì che passo la tessera e la malefica macchinetta mi dice “errore”, ed io continuo a provare e riprovare, finché il collega XY, arrivato silente alle mie spalle, non mi fa notare che quello che tento di spacciare per badge, in realtà, è, di volta in volta, la tessera socio Coop, quella per i punti della benzina, quella della piscina, quella per lo sconto in libreria. Un paio di volte ho anche tentato di timbrare l’uscita con il bancomat. Che figura.
Appunto, non ci sono proprio portata io, per il lavoro impiegatizio. Ma tanto è a tempo determinato.

La cosa brutta è che, invece, quello che mi piace per davvero, mi tocca farlo a tempo perso.

giovedì 14 gennaio 2010

La iettatrice

Valà che non riusciamo più neanche a godere di qualcosa di positivo..
Ormai siamo diventati diffidenti e sospettosi nei confronti di Madre Natura. Vedi tu che se abbassi un attimo la guardia, la stronza non ti prepara un colpo basso e mancino..
Per dire, dopo giorni di pioggia languida e diuretica, di freddo pungente come un ago da prelievo, di odioso quanto inutile nevischio, di ghiaccio liscio e lucido sulle strade che a momenti ti fa pattinare (senza pattini) se sei a piedi, mettendo a rischio svariate ossa del tuo scheletro, o sbandare verso auto o marciapiedi, se si è in macchina, l’altro ieri è uscito un bel sole che ha reso l’aria più tiepida di quanto ci si aspetti a qui a gennaio.
Ora, L’Aquila, prima del 6 aprile, quando ha avuto improvvisamente una notorietà mondiale, di cui, tutti noi avremmo fatto volentieri a meno, era nota, alle cronache metereologiche, per essere la città più fredda d’Italia, insieme alla ridente Bolzano.
Bene, il generale inverno decide di darci un attimo di tregua e invece di dire: “Meno male”, qui si pensa in modo nefasto.
Esco dall’ufficio per fumare una sigaretta (viziaccio viziaccio brutto…) e mi posiziono lucertolescamente in quello spicchio fuori ombra a scaldarmi un po’, con gli occhi chiusi ed il naso all’insù, quando una voce cupa e tetra, appartenente ad una collega che definirei melodrammatica, nonché iettatrice, mi penetra nelle orecchie portando fosche profezie:
“Fa caldo oggi. Mooolto caldo. Troppo.”
Incauta rispondo: “Per fortuna… Ci voleva un po’ di bel tempo.”
“Eh, non dire così… Sto leggendo un libro che paragona il terremoto di aprile a quello che devastò la città nel 1703. Sono uguali, stesse modalità, stessi tempi, stesso sciame sismico preparatore….
Sai che dopo la violentissima scossa ce ne fu un’altra dopo diversi mesi? E fu peggio della prima e fece molte più vittime perché i cittadini si erano tranquillizzati ed avevano ricostruito le case ed erano tornati ad abitarci? E comunque, questo caldo innaturale non è un buon segno… Pare che prima di una scossa si riscaldi l’aria. Non ricordi che giorno caldo fu il 5 aprile? Mmmmm…. Non mi piace……”

Bene. Detto fatto. Lo stesso pomeriggio, alle 14.35 ora locale, una scossa di magnitudo 4.1 muove per diversi secondi la sedia sulla quale ero sbracata mollemente, al primo piano di una delle abitazioni del progetto C.A.S.E (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili), all’interno delle quali, detto per inciso, il movimento sismico è amplificato dal sistema di cuscinetti e piastre.
Epicentro? Sulle prime ho pensato che fosse esattamente sotto il mio sedere, poi ho saputo che era ad Ascoli Piceno, nel frattempo, però, ero cagata addosso, maledicendo contemporaneamente quella porta sfiga della collega.

E poi Haiti e quelle immagini. Che non posso, non riesco a guardare, perché mi hanno scaraventato indietro di nove mesi. Anche se credo che ai miei fratelli haitiani sia andata molto peggio che a noi. E voglio aiutarli per quello che posso.